Intervista a Gianni Berengo Gardin
Ha iniziato negli anno ’50: da allora non ha più smesso.
Gianni Berergo Gardin: il suo nome è sinonimo di fotografia italiana nel mondo, associato a quello dei grandissimi (Smith, Doisneau, Ronis, Cartier Bresson…), a reportage memorabili (Venise des Saisons, Morire di classe, L’occhio come mestiere, Dentro le case, Dentro il lavoro, Un paese vent’anni dopo con testi di Cesare Zavattini…). Le maggiori aziende mondiali hanno usato i suoi scatti, i più grandi musei, a partire dal Moma, l’hanno omaggiato.
Eppure non si definisce artista. Solo fotografo, uno che documenta, va alla scoperta della realtà.
A Fotografia Europea 2017 la mostra Dall’archivio al mondo. L’atelier di Gianni Berengo Gardin consentirà ai visitatori di entrare nel suo laboratorio, a contatto con il luogo dove i progetti prendono forma tra attrezzature, provini, negativi, stampe originali, libri, cataloghi, oggetti: il “mondo nel mondo” di un maestro.
In questa intervista Gianni Berengo Gardin ci parla del suo “metodo”, del rapporto con il digitale, del futuro del suo sterminato, e amato, archivio.
Il suo studio è un microcosmo che contiene molte delle sue collezioni. Qual è il rapporto tra questo spazio intimo con il mondo esterno?
Sono due cose completamente diverse perché il “fuori” è l’azione, è il cercare le foto, il movimento, il camminare e guardare; mentre in studio c’è la realizzazione di quello che si è fatto fuori. Lo studio è un po’ come la tana dell’animale: si vive, si lavora, si mangia, e si cerca di ottenere il meglio dalle foto scattate.
Il lavoro in studio costituisce, da questo punto di vista, una specie di riflessione “a posteriori” o i progetti nascono nello studio e si realizzano in esterno?
Il progetto iniziale si, nasce in studio guardando, cercando, studiando, poi si va all’esterno e si realizza la scaletta che si è preparato e in più ci si affida al caso.
Come si coniuga il “tempo lungo” del pensiero con l’istantaneità dello scatto?
Beh è tutt’uno. Il pensiero è concordato con lo scatto e viceversa, è una cosa unica.
In studio c’è una selezione del buono dal cattivo, del bello, si seleziona e si migliora senz’altro quello che si è fatto all’esterno.
Come vive o ha vissuto l’avvento del digitale? Nel tuo lavoro è molto vivo l’aspetto affettivo verso gli strumenti della fotografia: le macchine fotografiche, le pellicole, ecc..
Nel mondo digitale è cambiato tutto, io non sono contrario al digitale, sono contrario a photoshop perché con photoshop non è che si correggono delle fotografie, si inventano delle fotografie: si cancella, si aggiunge se ne fanno di tutti i colori, la pellicola è più fedele alla realtà.
Il suo immenso archivio (più di 1,5 milioni di scatti) è una parte della memoria collettiva e non solo personale di Berengo Gardin. E’ così? Cosa ne pensa? Ha pensato al futuro del suo archivio?
Purtroppo ci ho pensato e la vedo brutta. Fortunatamente da qualche anno se ne interessa mia figlia per conto dell’agenzia Contrasto e della fondazione FORMA e quindi sono un po’ più tranquillo, perché ci sono 2 milioni circa di negativi alcuni buoni, tanti pessimi, c’è di tutto in archivio. Però una certa preoccupazione rimane ugualmente, perché è un fatto affettivo oltre che fisico, materiale, di raccolta dei negativi delle foto fatte. Io sopratutto per tanti anni e ancora oggi lavoro per l’archivio, e quindi sono un po’ a fasi alternate: un po’ preoccupato e un po’ tranquillo perché so che è in buone mani.
L’archivio dovrebbe essere sfruttato, nel senso che le fotografie devono girare, l’archivio è fatto apposta per poter far girare, in un futuro le fotografie, perché l’importanza dell’archivio è la documentazione, man mano che passano gli anni l’archivio diventa sempre più importante. Io non sono un fotografo/artista, sono un fotografo che documenta, sono un testimone della mia epoca.
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