Walker Evans: il secolo americano
L’artista è un collezionista di immagini che raccoglie le cose con gli occhi. Il segreto della fotografia è che la macchina assume il carattere e la personalità di chi la tiene in mano. La mente lavora attraverso la macchina (Walker Evans)
La storia della fotografia non sarebbe stata la stessa senza il bianco e nero di Walker Evans. E forse nemmeno il XX secolo. Il suo lascito è enorme: ha contributo a nobilitare il genere della fotografia di documentazione, sperimentato i rapporti tra immagine e scrittura, influenzato la Pop Art.
Chi è
Walker Evans (1903-1975). Dopo studi in letteratura e un breve soggiorno a Parigi, divenne un protagonista della vita culturale newyorchese tra gli anni ’20 e ’30. A consacrarlo furono una serie di lavori dedicati a genti e luoghi della Grande Depressione. Nel 1938 il MoMa di New York gli dedicò la prima mostra personale in assoluto riservata a un fotografo.
Cosa fa
Evans si rivela grazie all’incarico della Farm Security Administration, ente governativo che intende documentare lo stato degli USA negli anni della Grande Depressione. Insieme a un gruppo fenomenale di talenti quali Dorothea Lange, Arthur Rothstein, Russell Lee e altri, reinventa la fotografia documentaria e realizza alcuni degli scatti più iconici di sempre. Queste fotografie in parte confluiranno nello storico catalogo della sua prima mostra personale, American Photography, una raccolta che ebbe un’enorme influenza anche in Europa.
Ma la ricerca di Evans scavalca la dimensione meramente sociale. Nel suo “inventario” anti-retorico di architetture e oggetti la quotidianità, paradossalmente, rappresenta in maniera puntuale il più realistico e irrealistico dei miti: l’America.
Con Sia lode ora a uomini di fama (1941), la potenza dei volti della gente comune, la suggestione delle tracce di una società in sofferta transizione, si accompagna alla letteratura, ai testi potenti e realistici di James Agee. L’incontro tra immagine e scrittura è qualcosa di più di una sperimentazione, diventa all’istante un classico, degno in questo dell’amico Hemingway conosciuto nel 1933 a Cuba.
Dai desolati stati del Sud alla metropoli. Evans cerca l’immediatezza della strada, la messa in scena del caso e della serialità: la serie Many are called, realizzata tra il 1938 e il 1940, ma pubblicata solo 25 anni dopo, consiste di fotografie “rubate” nella metropolitana con una macchina fotografica nascosta nel cappotto.
Walker Evans lavorò a stretto contatto con molti scrittori americani e non abbandonò mai la scrittura. Fu assunto come redattore dalla rivista Fortune ed elaborò la forma dei “foto-saggi”: articoli composti da fotografie e testi in base ad argomenti da lui individuati, sviluppati e impaginati. Sono immagini riprese da treni in corsa, oggetti di uso quotidiano, cartelloni pubblicitari. Quella cara vecchia America che stava cambiando per entrare nella sua fase pop, come avrebbe riconosciuto Andy Warhol, suo grande ammiratore.
Negli ultimi anni di vita, le precarie condizioni di salute lo portano a effettuare esperimenti, pubblicati poi nel 2001, con la nuovissima e maneggevole Polaroid SX-70. A interessarlo sono ancora gli oggetti comuni scomposti e colti, con immediatezza e talvolta a colori, nelle loro linee essenziali: immagini di lettere, poster, cartoline… immagini di immagini.
A Reggio Emilia
L’ambizioso allestimento di Palazzo Magnani si compone di due parti: la mostra Walker Evans. Anonymous, in anteprima nazionale dopo le tappe di Arles e Bruxelles, presenta il lavoro ultratrentennale svolto per le riviste; il progetto Walker Evans. Italia, appositamente concepito per Fotografia Europea, rivela invece quanto il lavoro di Evans sia stato significativo anche per la cultura e i fotografi italiani, a partire dagli anni Trenta fino alla generazione degli autori del dopoguerra come Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Luigi Ghirri e Guido Guidi. Sono esposte inoltre opere del maestro statunitense provenienti dalle collezioni pubbliche e private italiane oltre che da pubblicazione storiche.
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